Il fenomeno migratorio tra Paesi e città

Secondo l’ultimo studio dei ricercatori dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali (Irpps) del Cnr, la crescita dell’immigrazione nel nostro Paese è paragonabile a quella avvenuta in Germania nell’immediato dopoguerra.

È quanto si legge nel Rapporto del Consiglio italiano delle Ricerche presentato oggi a Roma, uno studio avviato in seno al progetto europeo “Mediterranean and Eastern European countries as a new immigration destinations in the European Union” (IDEA).

In Italia, dal 1990 ad oggi, le presenze degli stranieri sono più che decuplicate.

“Nel 1991 si contavano sul suolo italiano 356 mila residenti stranieri, pari allo 0,6% della popolazione totale – spiega il responsabile della ricerca dell’Irpps, Corrado Bonifazi – oggi, nel 2009, gli stranieri sono stimati in circa 3,9 milioni, pari al 6,5% della popolazione. La crescita è analoga a quella registrata in Germania negli anni Cinquanta e Sessanta, gli anni, per intenderci, in cui sei milioni di nostri connazionali emigrarono all’estero. Tra la Germania del dopoguerra – continua Bonifazi – e l’Italia degli anni 2000 ci sono tuttavia delle profonde diversità. L’economia tedesca del dopoguerra aveva un tasso medio annuo di crescita del 5,1%. Tra il 1993 e il 2005 la nostra economia è invece aumentata solo dell’1% annuo. Anche il contesto politico è profondamente diverso: nel dopoguerra i tedeschi incentivarono con accordi bilaterali l’arrivo di lavoratori stranieri; i governi italiani, invece, da quando ha avuto inizio il flusso migratorio verso il nostro Paese, hanno sempre cercato di limitare il numero degli immigrati”.

“Le ragioni che hanno determinato una crescita così elevata dell’immigrazione in un contesto, come quello italiano – spiega Bonifazi – caratterizzato da un quadro politico teso a regolamentare gli ingressi e da un andamento economico non particolarmente brillante, sono molteplici. L’alto reddito e i bassi tassi di disoccupazione che caratterizzano molte aree del Paese; la consistente economia sommersa (stimata tra il 15 e il 20% del PIL); la persistente bassa fecondità che si è avuta nella popolazione autoctona tra il 1991 e il 2007; il basso livello di mobilità interna tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord; un sistema di welfare non in grado di rispondere ai bisogni di un paese che ha visto il numero di persone con più di 65 anni approssimarsi ai 12 milioni, di cui 2,3 milioni con qualche forma di disabilità”.

La popolazione si muove sul territorio, migra da un’area all’altra modificando di volta in volta le variabili sociali della crescita demografica. Sappiamo che le cause dei fenomeni migratori sono numerose, ma la più importante è il confronto fra le possibilità di vita nel paese di origine e quelle nel paese di destinazione. È infatti evidente che coloro che abitano in un’area economicamente depressa, tendono ad emigrare verso una più ricca.
Gli spostamenti all’interno di uno stesso stato riguardano tutte le zone del mondo e si orientano soprattutto verso le città: nel 2000 la popolazione urbana ha raggiunto i 2,9 miliardi di persone, pari al 47% della popolazione totale, contro il 30% degli anni Cinquanta.

Sappiamo bene come la storia delle migrazioni in Italia sia strettamente connessa all’economia del Paese. Tra il 1876 ed il 1950 più di 11 milioni di italiani attraversarono l’Atlantico, soprattutto verso gli Stati Uniti e l’Argentina, animati dalla speranza di trovare lavoro e di fuggire la povertà.
Imponenti flussi migratori interni avvennero invece durante il boom economico degli anni Sessanta, quando molti italiani si spostarono dalla campagna e dalla montagna verso le città e dal Sud verso Nord. Torino, ad esempio, tra il 1951 ed il1967 accolse 400 mila nuovi abitanti, raddoppiando la popolazione.

Le migrazioni internazionali hanno avuto, nel corso dei secoli significative variazioni nella portata e nella direzione dei flussi, tanto da poter individuare tre diverse tipologie migratorie: quelle verso i paesi nuovi, colonizzati dagli europei a partire dal 1500, che hanno avuto come conseguenza la formazione di grandi stati come l’Australia e gli Stati Uniti; quelle verso i paesi industriali, a partire dal XIX secolo (caratterizzate dalla ricerca di lavoro e di migliori condizioni di vita, molto simili nelle cause e nelle conseguenze al flusso interno verso le città); quelle verso i paesi liberi, che non esercitano oppressione politica o persecuzione etnica (migrazioni forzate, con diverse origini come diaspore, guerre, mutamenti di frontiere o di indirizzo politico).

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