Welfare locale, un nuovo equilibrio tra sostegno e servizi
Un mix temperato di misure economiche e offerta di servizi rappresenta la strategia migliore per rilanciare le politiche sociali a livello locale nell’attuale momento di tagli ai bilanci locali. È quanto sostiene Giovanni Devastato, professore alla facoltà di sociologia dell’Università La Sapienza di Roma e autore del recente “Nel nuovo Welfare” (edizioni Maggioli), a commento del Quaderno del Welfare di Cittalia intitolato “Contributi economici o servizi?”.
L’Italia è uno dei paesi in cui l’impatto dei trasferimenti sociali è minore nel contrasto alla povertà: secondo lei a cosa è dovuto questo fenomeno?
C’è un impatto marginale perché l’Italia non hai mai individuato una misura nazionale di contrasto alla povertà che costituisse programma organico per sostenere percorsi di inclusione. O vengono dati finanziamenti a pioggia oppure contributi in maniera frammentata, ma questo non determina politiche attive di contrasto bensì sono politiche passive di assistenzialismo. In Italia non si perseguono abbastanza misure promozionali che servono alle persone per superare le condizioni di partenza.
In che modo gli enti locali italiani hanno reagito sul fronte dei servizi all’incedere della crisi?
Gli enti locali stanno rispondendo con grandissima difficoltà perché la situazione dei tagli ai trasferimenti si sente e la maggior parte dei comuni è in grave difficoltà a rilanciare politiche attive e il rischio è di limitarsi a quelle che vengono chiamate “misure di ultima istanza”, ovvero limitarsi ad offrire qualche prestazione alle forme estreme di povertà semplicemente arginando situazioni di grave emergenza senza proporre il superamento delle stesse. La crisi sta incidendo in maniera fortemente negativa perché soprattutto in questo campo è difficile fare politiche attive quando mancano le risorse. È vero che le politiche non si fanno senza risorse monetarie ma dovrebbero esserci strategie di aggancio, per agganciare queste fasce della popolazione per fare dei contratti di sostegno sociale.
In uno scenario di crisi globale e tagli alla spesa pubblica, che margini d’azione restano ai comuni?
Hanno pochi margini nel senso che o i comuni da soli mettono una quota di risorse che può servire a fare qualche politica abbastanza ristretta, oppure si limitano a dare dei contributi. L’unica cosa che possiamo citare come esempio positivo in questa fase è che molti dei comuni che dava finanziamenti a pioggia, a fronte della sopraggiunta scarsità di risorse, è stata costretta a individuare le vere fasce di povertà ed eliminare degli sprechi. Nella maggior parte dei comuni italiani questa situazione sta costringendo i comuni a fare azioni di monitoraggio dei diversi programmi di intervento realizzati per verificare l’efficacia di queste azioni. È un elemento positivo ma non dovevamo aspettare la crisi per fare questo anche se ora è particolarmente importane e i comuni sono stati costretti a fare ciò. E’ il paradosso di questa fase, che spinge a porre più attenzione ai controlli di efficacia su tutto ciò che riguarda i servizi alla persona. I comuni stanno procedendo ad una situazione ordinaria a causa dell’emergenza ma spinti più da una logica di risparmio che dall’esigenza di razionalizzazione e riqualificazione dell’intervento.
In che modo misure come la Social card e il Bonus famiglia possono essere migliorate per aumentarne l’impatto?
In linea di massima la social card non è la soluzione, perché è ancora legata ad un finanziamento non adeguato e a fasce di popolazione ben definite. Viene messa all’interno di una sperimentazione annuale che non rientra in un programma nazionale di lotta alla povertà come avviene in tutti i paesi Ue, a parte la Grecia. Siamo gli unici due paesi nell’ Ue-15 a non avere una misura universalistica di lotta alla povertà e quindi la Social card rappresenta ancora una misura ridotta. Resta ancora la questione della sua gestione: il governo intendeva affidarla ad enti caritativi, ma ciò mette in difficoltà sul piano concettuale perché le politiche sociali moderne non si fanno con logica caritatevole ma secondo quella dei diritti di cittadinanza. Nel momento in cui lo stato non adotta una sua strategia organica ma si appoggia sugli enti caritativi presenti sul territorio, parliamo ancora di politiche sociale di carattere assistenziale.
Fornire servizi quanto più possibili su misura del cittadino e del luogo in cui vengono erogati può rappresentare una soluzione efficace per concentrare i costi e soddisfare i bisogni degli utenti?
Dalla contrapposizione contributi o servizi bisogna passare alla complementarietà. Questo oramai lo dicono tutti i documenti, a partire dalla commissione Onofri fino alla legge 328 del 2000, che ha riorganizzato i servizi territoriali. Tutta questa legislazione afferma che politiche sociali di contrasto alla povertà devono avvenire in mix temperato di misure economiche e offerta di servizi. Se da un lato servono interventi, che danno possibilità a chi vive forme di deprivazione materiale di avere l’opportunità di emergere, dall’altro c’è bisogno di interventi finalizzati a sostenere dei percorsi sociali concreti di affiancamento che consentano alle persone di inserirsi man mano attraverso un’offerta di asili nido per i minori, forme di conciliazione scuola-lavoro, tirocini assistiti. Questi servizi qualificano la misura economica che non deve essere l’unico strumento utilizzato che provoca poi dipendenza economica e cronicità nella condizione di povertà delle persone, senza dar loro più stimoli e voglia di emergere. Queste politiche hanno creato le cosiddette “trappole della povertà” capaci di mettere le persone nella condizione di convincersi di aver raggiunto un equilibrio ma ciò crea condizioni perverse del welfare che non emancipa le persone ma le tiene in condizione di subalternità ed assistenza.
Ci sono delle esperienze locali positive di connubio tra misure economiche e servizi?
Certo, in Italia non mancano. Alcune di queste esperienze sono state realizzate anche dalle province e dalle regioni. La Regione Campania aveva fatto una legge sulla dignità sociale che riguardava il reddito di cittadinanza, come anche la Regione Basilicata. In Toscana, la Provincia di Firenze si era impegnata a portare avanti un progetto di sostegno per l’inclusione sociale, qualcosa è stato realizzato anche dal comune di Lamezia Terme. In giro per l’Italia ci sono esperienze positive ma a termine, perché una volta finiti i finanziamenti si conclude anche il progetto e questo riporta in luce il problema di fondo, ovvero il fatto che mancando una politica nazionale di lotta alla povertà è chiaro che tutte le politiche locali sono legate ad iniziative estemporanee che si concludono quando terminano i fondi assegnati ai progetti.