Su Gerusalemme, strategie per il controllo dello spazio urbano

Simbolo di religiosità e spiritualità, Gerusalemme rappresenta il vero nodo del conflitto israelo-palestinese. Una città reclamata da due popoli, ostaggio di uno scontro senza fine, Gerusalemme potrebbe porre la prima pietra, per sancire non la separazione, ma la costruzione di un necessario processo di pace. Il volume “Su Gerusalemme, strategie per il controllo dello spazio urbano” a cura di Claudia De Martino edito da Castelvecchi, offre un excursus storico della città e delle attuali politiche urbane delineando la sfida futura della city diplomacy.

Gerusalemme è terreno di “un conflitto urbano alimentato da politiche pubbliche che contribuiscono con altri mezzi alla sua perpetrazione”, scrive la curatrice. Le politiche che riguardano la città ed ogni suo aspetto, come l’erogazione di beni e servizi e la gestione degli spazi urbani, rispondono alla logica dello scontro. “E’ una guerra che si combatte per ogni palmo di terra, per ogni feddan e per ogni casa, per ogni scuola e quartiere, per ogni infrastruttura e tratto di Muro che preclude la vista di ciò che c’è oltre”. Gerusalemme rappresenta l’identità e nessuno dei due popoli intende rinunciare alla propria storia.
Dal 1967 oggetto del controllo urbano israeliano è l’area di Gerusalemme Est dove si concentra una consistente percentuale di residenti arabi. Si calcola infatti che nel 2020 il rapporto in termini percentuali tra le due popolazioni sarà rispettivamente di 61,2 per cento di ebrei contro il 38,8 per cento di arabi. Le politiche di pianificazione urbana sembrano pertanto rispecchiare il disegno del governo israeliano di preservare una “solida maggioranza ebraica”. Non a caso, a partire dall’occupazione del 1967, è stato espropriato il 35 per cento della superficie di Gerusalemme Est. Il governo israeliano ha giustificato l’espropriazione per ragioni di “pubblica necessità” al fine di permettere la costruzione di edilizia pubblica o convenzionata, destinata, perlopiù, alla popolazione ebraica.

Il piano urbanistico della città (Jerusalem Masterplan) sembra confermare questa tendenza anche per il decennio futuro. Sono 37 mila le nuove unità residenziali per ebrei previste nel piano, mentre sono in programma, per l’espansione residenziale palestinese, solo l’ampliamento di quartieri arabi già esistenti come Beit Hanina e Jebel Mukhabar. La conformazione urbana della città, inoltre, è stata stravolta anche in seguito alla costruzione del muro, nel 2002, ad opera delle autorità israeliane. La barriera si spinge oltre i confini municipali fin nelle aree cisgiordane con due conseguenze: da un lato vi è la rottura del legame tra suburbi palestinesi e città e dall’altro l’annessione a Gerusalemme della maggior parte delle colonie attorno alla città (pur restando autorità municipali autonome de jure).

Politiche pubbliche emarginanti, non solo sotto il profilo urbanistico ma anche sotto quello sociale, producono disoccupazione, povertà e disuguaglianze economiche e sociali che fanno di Gerusalemme Est “una città di confine con accesso limitato”.
Per questo la sfida più importante della city diplomacy si gioca a Gerusalemme. Diventa fondamentale riconoscere il ruolo degli enti locali nel processo di prevenzione e risoluzione dei conflitti proprio per la loro naturale vicinanza al cittadino. “Gerusalemme – si legge nel volume – ha necessità di ambire ad essere una città in grado di trasformare il suo ruolo di agente del conflitto interno (…) in attore proteso alla risoluzione di una delle più annose controversie internazionali attraverso la risoluzione dei problemi che affliggono i propri abitanti”. Politiche urbane inclusive che puntino a migliorare la vivibilità della città combattendo la povertà, che colpisce soprattutto la popolazione araba, e riconoscendo i diritti di cittadinanza potrebbero rappresentare la direzione verso la risoluzione del conflitto.

Da città della divisione Gerusalemme deve diventare città della condivisione.