Gli inizi di Roma capitale

altUna capitale difficile, ingombrante sin dall’inizio, verso cui prevalevano da subito quei sentimenti di “odi et amo” che permangono ancora oggi. Le prospettive di crescita urbana e le conseguenze della scelta di Roma come capitale italiana sono al centro del volume “Gli inizi di Roma capitale” (edito da Bollati Boringhieri) di Claudio Pavone, archivista di Stato e docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa, che presenta due saggi sulla nascita di Roma capitale e sul Lazio nel 1870, alla luce dei complessi rapporti tra Stato e Chiesa.

“Il compimento dell’unificazione territoriale con l’annessione del Lazio al regno d’Italia nel 1870 ebbe un duplice aspetto: internazionale, la fine del millenario potere temporale dei papi il cui significato andava ben oltre la scomparsa dello staterello cui era ormai ridotto il dominio pontificio, e nazionale, il trasferimento della capitale a Roma. Entrambi gli aspetti impressero un segno di lunga durata sulla successiva storia d’Italia”, rimarca l’autore. Il Lazio fu costituito in un’unica provincia in cui la neocapitale sovrastava il territorio circostante. Prevalse un modello di accentramento amministrativo in cui la provincia era circoscrizione amministrativa dello Stato ed ente autarchico, con poteri maggiori per il prefetto di Roma.
Il governo nazionale cominciò a far avvertire il peso del proprio potere su Roma e sul Lazio attraverso la legislazione finanziaria. La tassazione statale infatti si rivelò più rigida di quella pontificia, poiché, oltre a reintrodurre la tassa sul macinato, con la legge del 12 febbraio del 1871 la stessa fu scissa dal dazio di consumo e fu estesa anche al granturco. La fiscalità governativa assieme all’opposizione clericale allo Stato nascente, soprattutto nelle province, rese il rapporto tra la popolazione locale, la Chiesa e il governo sempre più teso.

I romani erano caratterizzati da un approssimativo “senso religioso”. Roma aveva visto da sempre convivere sacralità e temporalità. “Le chiese di Roma erano piene di monumenti e deserte di popolo”, secondo il giudizio di molti studiosi. Per di più il cattolicesimo liberale non fu in grado di porsi come mediatore tra la Santa Sede, il governo e la cittadinanza. Il difficile rapporto degli italiani con Roma dipese anche dalla sua “speciale” condizione. “Roma – prosegue l’autore – è una città che viene descritta e giudicata per quello che più colpisce il visitatore. Essere visitata è per Roma una delle principali risorse”. La città, in cui ben il 20 per cento del territorio edificabile era occupato da edifici religiosi, fu costretta a “riadattare” i propri spazi per accogliere i ministeri e gli uffici governativi.

Mancò però un piano regolatore adeguato per fronteggiare la crescita esponenziale del centro urbano. Ciò segnò, con molta probabilità, il destino urbanistico della città dominato dalla speculazione edilizia privata. Lo scempio delle ville patrizie, lo sventramento del centro storico in età liberale fino a raggiungere il culmine nel periodo fascista, e il confinamento delle classi più disagiate nelle borgate, furono duri colpi inferti alla città. Anche se Roma fu in grado di riassorbire molte delle ferite non seppe cogliere i vantaggi derivanti dall’essere l’ultima arrivata fra le grandi città europee, sottolinea Pavone.

Il primo banco di prova per il nuovo governo fu il 13 novembre del 1872 con le elezioni amministrative per la scelta dei consiglieri comunali e provinciali ed il 20 novembre con le elezioni politiche per l’invio al parlamento di 15 deputati del Lazio. Nelle elezioni comunali del 1872 i clericali presentarono una lista propria ma furono sconfitti, cominciò allora una marcia di riavvicinamento tra lo schieramento clericale e quello moderato. Gli elettori amministrativi furono 26.553 mentre 12.725 gli elettori politici in tutta la regione. Questo significava che il Lazio rappresentava solo il 2,09 per cento degli elettori amministrativi mentre il 2,4 di quelli politici della nazione.

Incise sulla riduzione del corpo elettorale soprattutto l’analfabetismo. Mentre per poter essere iscritti nelle liste amministrative bastava saper “formare in modo sufficientemente intellegibile le lettere componenti il proprio nome”, per poter essere elettore politico invece era necessario “saper scrivere qualsiasi parola”. Ciò determinò un notevole distacco tra elettorato amministrativo e politico. Soprattutto nei piccoli comuni il governo puntò a ridurre l’elettorato amministrativo, rispetto invece alla legge pontificia che richiedeva requisiti misti di censo e qualità senza l’esclusione degli analfabeti. Per cui, mentre a Roma la legge italiana fece crescere il numero degli elettori da 294 a 7721, nei piccoli comuni accadde l’inverso visto che molti possedevano requisiti di censo ma erano analfabeti.

Il volume si conclude con una panoramica sulle elezioni politiche che si svolsero in un clima di incertezza dei vari programmi presentati, mentre nelle province la lotta politica assunse toni personalistici e campanilistici. La deputazione che uscì dalle elezioni ebbe atteggiamenti oscillanti verso il governo ma certamente si mostrò più favorevole allo stesso rispetto a quella precedente. Roma fu una capitale ingombrante non solo per il duplice ruolo riconosciutole, quello di capitale della cattolicità e quello di capitale di uno Stato moderno, ma anche per i problemi di natura amministrativa e fiscale derivanti dall’inclusione della città eterna e del Lazio nell’ordinamento statale.

 

Claudio Pavone, “Gli inizi di Roma capitale”, Bollati Boringhieri 2011