Ghetto Italia. I braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento

“E mi domando cosa siamo, noi, se mangiando un mandarino a tavola, d’inverno, non sentiamo il sapore amaro della prigionia. Siamo semplicemente complici.” Queste le parole di Yvan Sagnet e Leonardo Palmisano, che arrivano poco dopo pagina 100 del loro libro “Ghetto Italia- I braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento”, e che sembrano rivolte direttamente ai lettori, a noi cittadini.

La prigionia di cui si racconta è quella dei lavoratori della terra, immigrati, che vivono in condizioni inumane e che l’inchiesta descrive fin nei particolari più duri.
E’ un libro su questi lavoratori e sul nuovo caporalato che “agisce con la complicità del capitalismo agricolo italiano, del sistema agroindustriale multinazionale e della grande distribuzione globale, che fissano il prezzo dei prodotti ex ante senza tener conto del costo del lavoro, degli ammortizzatori sociali e del costo in vite umane”.

Ciò avviene in Italia, oggi. L’Italia in cui l’Istat registra una “diminuzione crescente della presenza straniera da lavoro” e dove “l’esodo di lavoratori immigrati è il sintomo di un disagio economico senza via d’uscita, di una crisi perdurante”.
Il primo pensiero di Sagnet e Palmisano è di scuse rivolte a quei migranti e a quelle migranti “che non abbiamo raggiunto, che non abbiamo ascoltato, che abbiamo lasciato al buio o nel loro mutismo”.
Ma coloro che sono riusciti a sentire, da cui hanno potuto farsi narrare le vicende, hanno raccontato di un sistema di sfruttamento che gli autori sintetizzano così nella sua cruda semplicità: “il bracciante percepisce in base all’imponderabile volontà del caporale; il caporale sottrae in base al suo soggettivo desiderio di rapina; il proprietario della terra versa al caporale una cifra secondo le convenienze fissate dai compratori del prodotto; i compratori rivendono e/o trasformano il prodotto a una cifra nettamente superiore a quella pagata.”

E ancora più chiara appare questa spietata filiera applicata ad un prodotto, il pomodoro: “Le industrie dei pelati hanno fissato il loro prezzo e lo hanno comunicato ai grossisti. I grossisti stabiliscono il prezzo del pomodoro al quintale e lo impongono ai coltivatori. I coltivatori, a loro volta, si rifanno sui braccianti attraverso i caporali. Una catena al ribasso dove tutti lucrano su chi sta sotto, a cascata, fatta eccezione per gli ultimi.”
E seppur il caporalato diventa reato penale, la sua presenza continua a pervadere l’economia agricola in diverse zone d’Italia, in almeno una ventina di province in undici regioni: Puglia, Calabria, Campania, Sicilia, Basilicata, Piemonte, Veneto, Lombardia, Lazio, Emilia Romagna, Friuli.
Giornate di lavoro che durano fino a dodici, sedici ore. Ore naturalmente sottopagate, registrate regolarmente solo in parte.
E quel poco che viene dato ai braccianti, viene sottratto dal “sistema” in cui sono costretti a vivere.
“Finche non s’è messo piede nel ghetto di Rignano Garganico”, scrivono gli autori, “non si può avere idea di cosa sia un inferno molto bene organizzato. Quelle che sembravano tende da campo sono baracche di legno e plastica, imbianchite dal sole e dalla polvere, disposte secondo un ordine molto preciso che ricorda troppo da vicino la disposizione dei blocchi nei campi di concentramento nazisti.”
Li ci vivevano in almeno duemila e forse più fino a quanto, a metà febbraio del 2016, un incendio forse doloso lo ha in parte distrutto (il libro è uscito a ottobre 2015). E fare i conti di quanto fruttava questo “ghetto” a chi ha tirato su le baracche, a cento euro a stagione per posto letto, quanto pagavano gli immigrati, è semplice: 200.000 euro.
“Parliamo di cifre che non penseremmo mai di veder uscire da questo ammasso di povertà stipata. Ma la verità è questa”, continuano gli autori, ”al business precedente, poi, vanno aggiunti quelli del cibo, dell’acqua, del sesso, del trasporto, dell’igiene saltuaria: almeno altri settecentomila euro per due mesi di raccolta! Cifre da capogiro accumulate sulla pelle degli ospiti del ghetto, e finite nelle tasche di tutti coloro che soddisfano a pagamento gli scarni bisogni dei braccianti. Questo e Rignano.”

Ed è una situazione che si ripete, con poche variazioni e declinazioni, anche altrove. Sono isole nascoste agli occhi di chi vive solo a un passo da li. “L’isolamento e un requisito dello sfruttamento”, dice Sagnet nel libro, “è vero che i lavoratori sono concentrati nei ghetti, ma il resto del mondo non deve sapere che loro esistono per davvero. Magari li vedono sulle biciclette ogni giorno, o quando scendono dai pullman, a Venosa come a Foggia, ma non gliene frega niente di dove vengono e dove vanno”.
E così Rosarno in Calabria, Vittoria e Cassibile in Sicilia, Latina, Terracina, ma anche Brescia e Alessandria, Asti, Saluzzo. Sono i luoghi visitati dagli autori per raccogliere le storie di uomini e donne, simili, ma ogni racconto diverso.
A cosa serve un’inchiesta come questa di Palmisano e Sagnet? Certamente per farci conoscere questa condizione, ma un’altra risposta, altrettanto importante, la da il libro stesso, con una speranza concreta: “Quando questa inchiesta sarà uscita, qualcuno muoverà finalmente un dito per alleviare la pena degli schiavi.”

 

Yvan Sagnet, Leonardo Palmisano
Ghetto Italia
I braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento
pp. 233
Fandango Libri, ottobre 2015

Giuseppe M. Galeone
Twitter: @GiusGaleone