Un viaggio attraverso la storia delle città – 4° puntata

altIl ruolo del tempo libero nel primo Novecento non può essere visto come un fenomeno autonomo e separato dalle altre trasformazione urbane, le opportunità di poterne usufruire sono infatti strettamente legate alle condizioni sociali ed anche il genere ha importanza, accanto alla disponibilità di danaro e all’età.
In tutte le città, all’inizio del XX secolo, l’uso del tempo libero nelle nuove forme organizzate è una prerogativa quasi esclusivamente maschile, soprattutto nelle classi popolari ed è rappresentato in molti casi da pub, circoli, spettacoli sportivi. Nei primi anni del Novecento lo sport è l’altro grande settore, che insieme allo spettacolo nelle sue molteplici forme, va affermandosi sempre più anche come intrattenimento: sia esso praticato (diviene un fenomeno di massa) sia quello che si svolge di fronte al pubblico in appositi spazi (ecco la nascita di molti stadi) o nelle strade. Giochi di squadra come il calcio o il rugby, d’importazione anglosassone, danno vita a campionati a squadre, poi si afferma il ciclismo e qualche anno più tardi l’automobilismo, che fanno crescere il tifo organizzato coinvolgendo la popolazione su un territorio più vasto di quello urbano.
L’organizzazione dell’attività sportiva di massa, più ancora che quella del divertimento, coinvolge associazioni politiche, sindacali e diventa un impegno per le autorità pubbliche.
L’associazionismo serve a rafforzare il senso di appartenenza, a creare consenso, a costituire una sorta di bilanciamento alle istituzioni pubbliche, ognuna ha un’organizzazione democratica e finalità solidaristiche.

 

Una nuova avanguardia culturale: l’Art Nouveau il gusto di un’epoca
Torniamo oggi a guardare lo sviluppo delle città.
La massificazione della produzione industriale negli ultimi decenni del 1800 interessa tutti i settori: dalla falegnameria alla vetreria, dalla ceramica alla siderurgia leggera, dalla tessitura fino alla grafica (con il conseguente ampio e non secondario sviluppo dell’editoria e della cartellonistica pubblicitaria). Gli oggetti prodotti dall’industria, tutti rigorosamente uguali e rispondenti a precisi standard di finitura, sembrano però mancare di personalità. In essi non si può più riconoscere la creatività peculiare dell’artista e al loro minor costo si è dovuta sacrificare la raffinatezza lavorativa. Dare maggiore qualità al prodotto industriale significa quindi rispondere a due importanti esigenze: la prima e più urgente è di ordine economico. L’innalzamento del livello estetico dei prodotti ha come immediata conseguenza l’apertura di un nuovo mercato, quello della media e piccola borghesia. Gli appartenenti a questa nuova classe, infatti, sono stati fino ad ora esclusi sia dai prodotti di alto artigianato (per loro irraggiungibili poiché troppo costosi), sia dai prodotti industriali a larga diffusione il cui utilizzo era orientativamente popolare.
La seconda esigenza poi è quella di porre le basi per un’arte diversa e moderna, in linea con il progresso dei tempi e con le nuove aspettative dell’uomo. Nasce così l’Art Nouveau, la risposta artistica che la cultura europea, stanca dello storicismo eclettico e del magniloquente accademismo, dà al disagio del proprio tempo. Il termine “arte nuova” non indica un’arte di evasione, il patrimonio di esperienze maturato da William Morris con la sua “Arts and Crafts Exhibition Society” non è andato assolutamente disperso e, al contrario, confluisce in modo diretto all’interno di questa nuova corrente portandovi tutto il proprio bagaglio ideale e professionale.
È così che l’Art Nouveau diventa il gusto di un’epoca incarnando nel modo più vero e profondo lo spirito e le contraddizioni delle città, delle società che sempre più velocemente stanno andando verso il disastroso evento che ha rappresentato la prima guerra mondiale.
In ogni Paese d’Europa l’Art Nouveau si sviluppa in modo diverso, al fine di meglio interpretare quel desiderio di novità che è insito nel suo stesso nome. E anche i nomi naturalmente cambiano. Art Nouveau è quello francese e nasce dall’insegna di un grande negozio di arredamento di avanguardia aperto a Parigi nel 1895. In Inghilterra prende il nome di Modern Style e in Italia quello di Stile floreale o Liberty. In Germania l’Art Nouveau si diffonde come Jugendstil (stile giovane), in riferimento anche alla rivista Jugend, che aveva iniziato le pubblicazioni a Monaco di Baviera nel 1896, nei Paesi Bassi invece si chiama Nieuwe Kunst (nuova arte), mentre in Austria, pur con i dovuti distinguo, si parla piuttosto di Secession, dal nome del movimento artistico d’avanguardia formatosi a Vienna nel 1897. In Belgio poi si definisce Stile Horta, dal nome di Victor Horta, che ne è il più significativo esponente ed in Spagna viene adottato l’appellativo di Arte Joven o più comunemente Modernismo.
L’Art Nouveau ha investito tutti i campi del vivere quotidiano. Si pensi all’arredamento, ad esempio, dove alla sobria linearità delle forme neoclassiche si sostituiscono quelle più morbide e sinuose, nel campo tessile, grazie alle nuove tecnologie di lavorazione e ai procedimenti di stampa a più colori, vengono prodotte stoffe e tessuti decorati con motivi straordinariamente complessi e delicati assolutamente impensabili da realizzare al telaio con i metodi della tradizione artigiana.
A seconda dei diversi Paesi nei quali si sviluppa, l’architettura art nouveau assume varie forme e soluzioni costruttive. La sua costante è tuttavia nell’uso nuovo e funzionale del ferro e delle ghise, sono le stesse strutture che diventano decorazioni. La famosa ringhiera in ferro e legno che Horta realizza nel 1894 per la scala principale dell’Hotel Solvay di Bruxelles ne rappresenta uno dei più noti esempi.
La stagione dell’Art Nouveau è forse l’ultimo periodo della storia contemporanea nel quale si sia assistito, pur con le naturali differenziazioni dovute alle varie tradizioni sociali e politiche di ogni Paese, al diffuso affermarsi a livello internazionale di un’ideologia artistica e culturale che si presenta realmente omogenea.

Le grandi trasformazioni a cavallo di due secoli
Dopo il 1870 il mondo economico non è più come a metà Ottocento, un sistema solare ruotante intorno ad un’unica stella, la Gran Bretagna. Se la maggior parte delle operazioni finanziarie e commerciali passano ancora per Londra, l’Inghilterra non è più “l’officina del mondo” e neanche il suo massimo mercato d’importazione. A fine Ottocento vi sono e si affrontano una serie di economie industriali nazionali concorrenti ed in questo scenario la competizione economica si intreccia con l’azione politica e militare degli Stati.

La Prima guerra mondiale ha sconvolto l’Europa non soltanto nel suo aspetto esteriore, ma nel rapporto di fiducia tra i cittadini e lo Stato, nelle regole di convivenza civile, solidarietà sociale, regolazione dei conflitti. Non è la politica né le sue istituzioni il terreno entro cui le masse si riconoscono e si integrano: sono piuttosto i partiti, i sindacati, le organizzazioni di reduci o paramilitari. Un nuovo equilibrio che si cerca nella dislocazione delle appartenenze e di cui sono protagonisti soprattutto i ceti medi in difficoltà, ansiosi di riconoscimento morale, prestigio sociale. Queste forze vanno a costituire in molti casi il personale burocratico e dirigente delle nazioni che hanno preso parte alla guerra. La stabilità raggiunta nella seconda metà degli anni Venti è tutt’altro che solida: gli interessi economici contrapposti sembrano trovare la propria sintesi, così come i rapporti diplomatici tra i singoli Stati. Ma la prospettiva sarà di breve durata e gli egoismi nazionali riprenderanno a dominare la politica europea. I principali problemi economici sono quelli dell’enorme debito europeo creato dalla guerra e della fine del ruolo di creditore della Gran Bretagna. La sovrapproduzione fa diminuire i prezzi dei prodotti agricoli mediamente del 30% negli anni dal 1923 al 1929, ma grano e caffè crollano del 75%, la lana ed il cotone del 70%. Il crollo dei prezzi non è dovuto solo al continuo aumento della produzione (si cerca di esportare di più per mantenere lo stesso livello di valuta estera), ma alle politiche protezioniste messe in atto in tutti i Paesi industriali. Il debito dell’Europa continentale è tutto rivolto verso gli Stati Uniti, che con la guerra sono divenuti il maggior creditore netto mondiale; ogni nazione Stato cerca di esportare per ottenere dollari con cui estinguere il debito. Le ripartizioni tedesche accrescono ulteriormente lo squilibrio tra lo scambio europeo e l’America. Gli scambi intereuropei, infatti, pur favorendo ora l’una ora l’altra nazione non risolvono il debito europeo complessivo nei confronti di Washington. La spinta contraddittoria a restaurare il sistema economico precedente la guerra e a crearne uno nuovo, che agita le élite europee e si riflette nell’aggravarsi dei conflitti sociali e dell’instabilità politica, lega sempre più strettamente le scelte dell’economia a quelle della politica. Il bisogno di controllare gli aspetti più gravi della crisi (disoccupazione e inflazione) spinge a politiche monetarie restrittive che colpiscono soprattutto i settori più tradizionali (agricoltura, industrie tessili, acciaio, cantieristica), mentre le nuove industrie (automobilistica, aeronautica, chimica, elettrica) raccolgono investimenti e si espandono a ritmi crescenti. La Gran Bretagna è il Paese che paga maggiormente la nuova competizione internazionale, diminuendo la quota di produzione, commercio e consumo tanto nel settore tessile quanto in quello del carbone e dell’acciaio. La scelta di non operare diretti interventi del governo nell’economia induce a promuovere un controllo dei prezzi attraverso la riduzione dei salari invece che con maggiori investimenti, aumentando in questo modo una tensione già alta. Lo sciopero generale del maggio del 1926 rappresenta l’evento più sintomatico di quel momento. Iniziato dai minatori lo sciopero coinvolge poi la categoria dei trasporti, ferrovie, edilizia, che bloccano il Paese per nove giorni con due milioni e mezzo di lavoratori che incrociano le braccia. Anche in Francia il declino dei settori tradizionali è accompagnato, ma non del tutto rimpiazzato dallo sviluppo delle nuove aree, soprattutto l’industria chimica e delle fibre sintetiche. La produzione di automobili che nel 1920 ammontava a 40mila unità, nel 1929 supera le 250mila. Quella di elettricità passa invece da tre milioni e mezzo di chilowatt/ora ad oltre diciassette milioni. Persino l’agricoltura, pur perdendo un numero considerevole di addetti come in tutta l’Europa occidentale, accresce del 10% la propria produzione nel corso degli anni Venti. Le esportazioni vengono favorite dalla perdita di valore del franco, mentre l’inflazione aiuta in qualche modo gli investimenti, costringendo tuttavia i governi ad aumentare i debiti accrescendo il disavanzo pubblico. L’instabilità politica è al tempo stesso l’effetto della mancata stabilizzazione monetaria e l’incapacità di normalizzare le relazioni con la Germania, che l’occupazione della Ruhr nel 1923 aveva mantenuto in una fase critica.

Le nuove esigenze del tessuto urbano
Le nuove dimensioni assunte dalle città alla fine del XIX secolo e la molteplicità delle funzioni che esse ospitano pongono diversi problemi di organizzazione dello stesso tessuto urbano. Le esigenze di pianificazione che ne derivano tendono ad entrare in contrasto con la dominante concezione liberista dando spesso luogo a soluzioni contraddittorie. Lewis Mumford, urbanista e sociologo descrive la crescita disordinata delle periferie operaie sorte con l’industrializzazione, Marshall Berman, parla di una capitale francese rigidamente pianificata di Haussmann, mentre lo storico Carl E. Schorske si sofferma sulla Vienna di fine secolo. Una Londra multicentrica, in equilibrio fra poteri istituzionali e forze sociali emerge infine dalle pagine dell’architetto Steen Eiler Rasmussen. Letture interessanti che compongono il quadro di un’epoca a cavallo di due secoli.

“I principali elementi del nuovo complesso urbano sono la fabbrica, la ferrovia e lo slum. Sono essi a comporre la città industriale: una espressione per designare semplicemente il fatto che almeno duemila persone sono concentrate in un territorio che può essere indicato con un unico nome proprio. Questi grumi urbani possono ingrandirsi cento volte – e alcuni effettivamente si ingrandiscono – senza per questo acquistare qualcosa di più che un’apparenza delle istituzioni che caratterizzano una città nell’accezione sociologica del termine, di un luogo in cui si concentra un’eredità sociale e in cui la possibilità di continui rapporti e di reciproche influenze eleva a un potenziale più alto le complesse attività dell’uomo. La fabbrica diviene il nucleo del nuovo organismo urbano. Ogni altro elemento le è subordinato. Persino i servizi pubblici, come il rifornimento dell’acqua, e quel minimo di uffici governativi indispensabile all’esistenza di una città, se non sono approntati da una generazione precedente, vi vengono introdotti solo con molto ritardo. La fabbrica si accaparra di solito le posizioni migliori: le industrie cotoniere, chimiche e siderurgiche scelgono siti non lontani da una banchina, perché sono necessarie grandi quantità d’acqua nei processi di produzione, cioè per rifornire le caldaie a vapore, raffreddare le superfici roventi, preparare le soluzioni chimiche e i coloranti. Ora il fiume e il canale ha anche un’altra funzione: è il luogo di scarico più economico e più comodo per i rifiuti solubili o galleggianti di qualsiasi genere. La trasformazione dei fiumi in vere e proprie fogne è una delle tipiche imprese della nuova economia. Conseguenze: avvelenamento della vita acquatica, distruzione di alimenti, inquinamento delle acque al punto che diventa sconsigliabile bagnarvisi.
Nelle città industriali sviluppatesi da centri più antichi, gli operai vengono spesso alloggiati trasformando le vecchie case in casermoni in affitto. In tali dimore rimesse a nuovo ogni locale ospita un’intera famiglia e questa densità d’occupazione è un fenomeno rimasto a lungo da Dublino a Glasgow a Bombay.

Lo sviluppo del lavoro industriale
Nelle imprese che guidano lo sviluppo industriale negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, l’organizzazione del lavoro è ancora quella di fine Ottocento, legata a differenti processi produttivi.

Prima della guerra erano stati pubblicati gli studi di Frederick Taylor, un ingegnere americano che ipotizzava “un’organizzazione scientifica del lavoro” in grado di incrementare la produttività degli operai e regolamentare il loro comportamento in fabbrica. Il lavoro di queste persone, immigrate da ogni parte del mondo doveva essere, secondo Taylor, predeterminato e standardizzato nei metodi, diviso in funzioni diversificate per la totalità dei lavoratori, ma ripetitive per il singolo operaio, disciplinato nei tempi. La “scienza del lavoro” elaborata da Taylor è stata considerata un momento importante nel processo di dequalificazione del lavoro operaio, di perdita di contenuti professionali e di capacità di controllo del processo produttivo da parte dei lavoratori. Ma il profondo cambiamento che avviene nel mondo del lavoro e dell’industria non è soltanto il frutto di nuove teorie. A partire dagli anni Venti, in alcuni stabilimenti e settori industriali degli Stati Uniti e nei decenni successivi anche in Europa, ha infatti inizio l’epoca della produzione di massa destinata a segnare per almeno cinquant’anni l’intero orizzonte della nostra storia.
Una storia che seguiteremo a raccontare dipanando i momenti cruciali che hanno inciso sulle trasformazioni delle città.

Bibliografia:
Berman Marshall, L’esperienza della modernità, Il Mulino, 1999
Foner Eric, Storia della libertà americana, Donzelli, 2000
Bairoch Paul, Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi. Vol II, Einaudi, 1999
Lewis Mumford, La città nella storia, Vol III: Dalla corte alla città invisibile, Bompiani, Milano 1967