Smart city in pratica: una possibile road map

altdi Mauro Bonaretti – Direttore generale del Comune di Reggio Emilia e Presidente Andigel (Associazione nazionale dei direttori generali degli Enti Locali)

Nel nostro Paese si parla molto di smart city. Si tengono convegni, se ne discute parecchio e tutti convengono sulle opportunità offerte da questo approccio sia per la competitività delle nostre città, sia per lo sviluppo di un settore, quello tecnologico, così strategico e ad alto tasso di occupabilità. Eppure, nonostante i recenti bandi promossi meritoriamente dal Miur e gli sforzi di investimento prodotti dalle aziende, è ancora difficile osservare esempi concreti e pratiche diffuse di cambiamento, capaci di incidere realmente nella vita quotidiana delle città italiane (1).

Perché, nonostante l’esigenza reale di modernità, l’attenzione strategica, gli sforzi industriali e le politiche governative di sostegno, le smart city sono ancora più una evocazione futuribile che una concreta linea operativa di intervento?

 

1. Un Paese in confusione
Una prima risposta è che siamo uno strano Paese, pieno di contraddizioni. Un giorno celebriamo Adriano Olivetti e l’ascesa dei knowledge workers e il giorno dopo aboliamo per legge la formazione dei dipendenti pubblici, azzeriamo il fondo sociale, consideriamo tutti i convegni o le consulenze (knowledge workers) alla stregua di sprechi insostenibili, accomunandoli ai festini o alle auto di rappresentanza.
Un Paese nel quale quando i professori governano sono considerati fenomeni e quando fanno il loro mestiere di insegnare vengono considerati sprechi.
Eppure in questo grande “Bar sport” nel quale ci ritroviamo a vivere, su qualche questione di fondo occorre pur mettersi d’accordo. E’ intuitivamente contraddittorio, da un lato, parlare di smart city e, dall’altro, togliere alle città la gran parte dei margini di autonomia necessari per innovare le politiche locali. Tra patto di stabilità, che rende tecnicamente impossibili gli investimenti (anche in presenza di risorse disponibili e progetti ad altissimo ritorno), e i vincoli organizzativi, che impediscono il ricorso a nuove professionalità, il quadro è chiaro. Non esistono le minime condizioni di agibilità per investire sulle smart city perché non è possibile ricorrere alle risorse pubbliche disponibili a livello locale e perché i Comuni non dispongono internamente delle competenze necessarie a far decollare un progetto tanto ambizioso. La stessa agenda digitale rappresenta un lungo elenco di buone intenzioni: se vogliamo davvero recuperare il terribile ritardo tecnologico che l’Italia sta accumulando e se davvero si vuole far leva per la crescita su un settore che in altri Paesi rappresenta una importante quota di Pil, occorre “fare le cose”. Scrivere leggi non basta, soprattutto se queste rimandano a una filiera infinita di decreti attuativi, sintomo evidente di una progettualità ancora di massima e non certamente definita a livello di deployment operativo. Questo approccio è vecchissimo e l’Italia non se lo può più permettere. Nella nostra epoca la velocità non è certo una variabile irrilevante: non è più tempo di considerare visione strategica e tempestività operativa come opzioni alternative. La vita di tutto il mondo si svolge nelle città e, se non mettiamo rapidamente le città nelle condizioni concrete di competere su scala globale, significa di fatto lasciare le nostre cities nelle condizioni di essere ben poco smart.
Il nodo della rete è in questo senso emblematico. Nonostante una domanda crescente di banda, dal mercato dei consumatori a quello business, l’Italia è ancora impantanata nel guado tra modelli di intervento sulla fibra (FTTB, FTTC, FTTH) e interessi delle imprese di TLC e sta accumulando ritardi pericolosi. Tra ipotesi di faraonici investimenti non ammortizzabili se non in pochi centri (Metroweb) e problemi di concorrenza (Telecom), l’Italia ancora non ha scelto un progetto e una strategia per il Paese. Ancora una volta non è problema di norme ma di interessi contrapposti che vanno governati. Questo è il compito normale che ricade in ogni posto del mondo su chi ricopre responsabilità di governo. Bisogna farlo e farlo in fretta.

2. Domanda e offerta da rivedere
La tecnologia è una variabile fondamentale per innovare le politiche pubbliche. Le opportunità per raccogliere informazioni disperse, per organizzare big data, per fruire di cloud sono lì sotto gli occhi di tutti. Eppure gli esempi concreti realizzati sono davvero molto limitati. Il sistema Paese non aiuta, ma non è solo responsabilità dello Stato centrale. Occorre riconoscere i limiti anche degli attori locali.

2.1 Una domanda molto latente
Un primo limite riguarda i Comuni. I Sindaci vivono una delle fasi più complesse del dopoguerra: riduzione forte e improvvisa delle risorse a disposizione, aumento della complessità e dei problemi sociali, rafforzamento dei vincoli all’autonomia. I Sindaci oggi sono molto più concentrati a dare risposte urgenti a drammatiche condizioni di crisi sociali e a conservare i servizi fondamentali in condizioni difficilissime, piuttosto che ad elaborare nuove strategie per le smart city. Non solo è naturale, ma inevitabile e doveroso. Tuttavia non si può negare che forse esistano anche altre ragioni locali di difficoltà. La tecnologia interviene ad integrare, innovare, migliorare, ma si deve innestare inevitabilmente su politiche e strategie ben definite. Se non vi è chiarezza di strategie e di obiettivi di policy è certamente debole anche la consapevolezza dell’opportunità offerta dalla leva tecnologica. Senza politiche e obiettivi chiari in termini di priorita non sarà possibile declinare il concetto di smart city nel contesto specifico di un territorio. Smart city è un’etichetta che contiene un paniere di opportunità che spaziano dal risparmio energetico, al turismo, all’e-gov, ai beni culturali, all’educazione, alla mobilità, ecc. Bisogna avere chiare le priorità di un territorio per scegliere almeno da dove iniziare. In modo molto semplificato esistono almeno due grandi ambiti di politiche pubbliche rispetto al quale questo concetto andrebbe declinato: l’ambito dello sviluppo economico locale e l’ambito dei bisogni sociali.
In chiave di sviluppo locale il concetto di smart city può trovare una declinazione originale: investire in tecnologia per fare progredire alcune competenze distintive di territorio, attrarre player tecnologici globali o nazionali e creare un cluster di imprese tecnologiche, capaci di trasformare in servizi smart tale vocazione. Questa strategia è ad esempio ipotizzabile in città a forte vocazione turistica: investire in tecnologia per i turisti accresce la competenza distintiva del territorio e probabilmente farà da volano per un indotto nel settore tecnologico locale, caratterizzandolo con una forte vocazione per le tecnologie per il turismo. Stesso ragionamento si può ipotizzare per territori che vedono nella green economy, nell’agri-food, nella fruizione del patrimonio culturale, nella moda, nel design, nell’educazione, nell’essere nodo di mobilità su larga scala la specificità distintiva che caratterizza la propria strategia competitiva globale. In tutti questi casi la tecnologia può rappresentare una leva di miglioramento del proprio posizionamento e una peculiarità per favorire un indotto tecnologico specialistico. La condizione di percorribilità di queste prospettive risiede però in una variabile non tecnologica ma strategica: per cogliere l’opportunità tecnologica occorre che un territorio abbia a monte definito la propria vocazione e una propria strategia competitiva nel panorama globale. E questa, oggettivamente, non è una risorsa molto diffusa.
Ragionamento analogo vale anche rispetto all’altro grande ambito di policies: i bisogni sociali. Questo ambito, più tradizionalmente nelle corde delle politiche pubbliche dei Comuni, è solo apparentemente più omogeneo, ma in realtà anche in questi casi le specifiche strategie locali diventano determinanti. Prendiamo ad esempio tre tipiche politiche pubbliche locali quali la mobilità, il welfare e l’educazione. In tutti questi casi la declinazione tecnologica non è mai irrilevante rispetto alla strategia specifica. Strategie più orientate a valorizzare il trasporto pubblico e la mobilità ciclabile avranno curvature tecnologiche differenti rispetto a strategie basate sull’uso del mezzo privato e sulla fluidità delle strade e del sistema dei parcheggi. Ma altrettanto si potrebbe ipotizzare per strategie di welfare più prestazionali e inclini all’impiego di sistemi di e-health, rispetto a sistemi di welfare orientati a valorizzare la dimensione comunitaria di territorio e proiettati invece a privilegiare una naturale traslazione delle reti sociali in social network. Così come diverse saranno le priorità di investimento tecnologico per chi intende rafforzare una strategia educativa di tipo trasmissivo, rispetto a chi invece predilige un approccio socio costruttivista. Tutte queste alternative strategiche determinano priorità di investimento tecnologico differenti, scelte strumentali differenti e curvature differenti nell’ambito dei medesimi strumenti operativi. Anche in questo caso, come nel caso delle politiche di sviluppo locale, vale però un principio comune e trasversale: senza aver chiarito a monte la strategia di azione rispetto alla quale si sviluppa la politica pubblica, le tecnologie rimangono un paniere indistinto di opportunità, ma difficilmente vengono vissute come una reale esigenza di investimento. E anche in questo caso va riconosciuto che questa chiarezza di approccio nelle nostre città non è sempre una risorsa abbondante.
Infine occorre sottolineare un altro fattore importante di debolezza dell’attore pubblico locale. Big data, data scientist, modelli interpretativi e previsionali rappresentano reali opportunità e leve di miglioramento delle performance solamente se i processi decisionali locali si basano su un riconoscimento del valore delle evidenze empiriche. Nella realtà la gran parte delle decisioni avvengono sulla base della cronaca, dell’intuito dei leader, dell’esperienza dei manager: le organizzazioni non sono infatti strutturate per decidere sulla base di informazioni. Questo problema riguarda oggi tutte le organizzazioni pubbliche e private del mondo (2), ma certamente le amministrazioni locali italiane non sfuggono a questo limite. E’ dunque del tutto evidente che l’esigenza di investire in tecnologie per le smart cities, in un quadro di scarse risorse a diposizione, di poca chiarezza strategica delle politiche pubbliche, di limitato impiego delle informazioni nei processi decisionali, diviene una esigenza debole, sopraffatta da emergenze molto più stringenti. La domanda oggi è cioè ancora molto latente o fortemente indotta dall’offerta.
Non deve dunque stupire se l’approccio prevalente al tema smart city, da parte dell’attore pubblico locale, finora si è più concentrato sull’assicurarsi un posizionamento di immagine e nel considerarlo alla stregua di un gadget, piuttosto che in una reale consapevolezza e investimento per il futuro.

2.2 I limiti dell’offerta
Se non vanno nascosti i limiti dell’attore pubblico è necessario però non sottovalutare neppure i limiti dell’offerta. In particolare due appaiono i più evidenti. Le principali strategie di smart city appartengono ad aziende multinazionali che a livello mondo hanno colto un gigantesco spazio di mercato. Queste aziende, seppur detentrici di modelli, competenze e professionalità di primo livello internazionale, non hanno nel nostro Paese le sedi dei laboratori di ricerca. Così gli investimenti effettuati in Italia, in alcuni casi estremamente consistenti, si sono concentrati su un importante ed encomiabile sforzo commerciale e sui modelli di finanziamento, ma non si sono potuti rivolgere a sperimentazioni proprie delle funzioni di ricerca e sviluppo. Questo approccio, inevitabile per le caratteristiche strutturali del settore, ha favorito la diffusione di una sensibilità sul tema e una nuova centralità dell’oggetto rispetto all’agenda setting dei decisori, ma non ha consentito quelle sperimentazioni concrete (rispetto alle specificità territoriali) che avrebbero reso forse più praticabile una successiva azione di traslazione e reinterpretazione.
Un secondo limite dell’offerta è che la gran parte dei casi, raccontati dalla pubblicistica e convegnistica di settore se, da un lato, hanno avuto certamente il merito di attrarre l’attenzione degli addetti ai lavori, dall’altro, si sono troppo spesso concentrati su soluzioni “curiose” in cerca di virtuali problemi da risolvere, anziché su reali bisogni, percepiti come veramente forti ed emergenti dalle città. Non può cioè stupire se un Sindaco sceglie di erogare contributi a famiglie indigenti piuttosto che incentivi per acquistare ruote di bicicletta dotate di sensori.
L’offerta, nonostante lo sforzo compiuto, forse non ha saputo/voluto svolgere un compito di accompagnamento della domanda e di personalizzazione delle proposte rispetto ai reali bisogni di territori e clienti, non ancora maturi in termini di consapevolezza strategica.

2.3 Differenziali semantici

Un elemento critico sottolineato da molti riguarda le modalità di relazioni tra gli attori. Si sottolinea cioè la difficoltà di una relazione di co-progettazione dei sistemi. Secondo questa tesi, le caratteristiche di non maturità del settore e di scarsa consapevolezza della domanda avrebbero richiesto relazioni intense e continue tra domanda e offerta. Al contrario, invece, la dinamica del confronto si è assestata su posizioni più rigide, dove i confini tra fornitore e fruitore non sono stati così labili come avrebbero voluto le esigenze del contesto di innovazione al quale ci si trovava di fronte. La preoccupazione cioè di incorrere in irregolarità formali, in un quadro di grande tensione politica sulle questioni della trasparenza, avrebbe impedito alla parte pubblica di avventurarsi in processi più innovativi di co-design delle soluzioni operative. Sotto questo profilo, se da un lato è innegabile che la posizione pubblica della domanda richieda una particolare vigilanza dei comportamenti anche involontari, dall’altro tuttavia l’attore pubblico ha a disposizione una tale molteplicità di strumenti negoziali (dalle manifestazioni di interesse alle infinite forme di PPP) da rendere tale tesi non del tutto consistente. Quanto invece l’attore locale sia abituato a condurre processi negoziali trasparenti, nell’ambito delle tante possibilità messe a disposizione dal legislatore (anche nella fase pre-commerciale), è altra questione che attiene più alla professionalità dei funzionari pubblici che non a reali vincoli normativi.
Un altro aspetto decisivo riguarda l’unità di riferimento. Smart city non è sinonimo di smart municipality. La città è un insieme ben più ricco e articolato del Comune inteso come singola organizzazione pubblica. Comprende i cittadini, le imprese, il terzo settore, le associazioni di rappresentanza, gli intermediari finanziari, le public utilities, le fondazioni bancarie, le altre istituzioni pubbliche e private. Limitare il dialogo tra l’offerta e il Comune è restringere a un perimetro troppo ristretto la rete degli interessi in gioco. E’ pur vero che sempre più ai Comuni è richiesto un ruolo di governance (regista e catalizzatore delle politiche pubbliche), di tessitore principale di una rete diffusa di attori protagonisti per il successo di obiettivi condivisi. Ma è pur altrettanto vero che progetti così ambiziosi come quello di infrastrutturare la città di sistemi permanentemente interconnessi, interattivi e di interesse generale, non possono vedere coinvolta la sola responsabilità dell’attore pubblico. Sono necessarie risorse ingenti non solo e non tanto sotto il profilo economico, quanto sotto quello della condivisione del bisogno, del consenso, della spinta a perseguire un progetto comune. Un disegno tanto ambizioso richiede il coinvolgimento della città intera e dei suoi attori principali, esattamente come accade nel caso dei piani strategici. In fondo smart city può anche ben vedersi come l’innervatura tecnologica a supporto dei piani strategici delle città. Le condizioni decisive abilitanti per l’attuazione operativa delle smart city sono dunque proprio le stesse due caratteristiche principali dei piani strategici: la chiarezza di politiche integrate della città e il coinvolgimento dell’intero sistema degli attori. Non è perciò un caso se, a livello europeo, città come Barcellona o Edimburgo, con alle spalle una forte tradizione di pianificazione strategica, sono tra quelle che più di altre stanno sviluppando le esperienze più interessanti in chiave smart city.

3. Rendere sostenibili le smart city: le risorse e la road map
Un aspetto molto pragmatico che ha giocato un ruolo importante è stato certamente quello delle risorse. Finita la disponibilità di risorse pubbliche proprie, congiuntamente alla crisi del ciclo edilizio e ai vincoli del patto di stabilità, si sono di fatto bloccati tutti gli investimenti pubblici locali. Questo problema non è di poco conto e le conseguenze in termini di crescita, occupazione e competitività infrastrutturale del Paese sono evidenti. Non è chiaro per quanto possa reggere un sistema che non investe e i tempi saranno auspicabilmente stretti per rivedere le norme del patto interno di stabilità, almeno per sbloccare le risorse locali disponibili e vincolate in cassa, se si vuole dare una minima, ma rapida scossa all’economia del Paese.
Tuttavia sarebbe miope ritenere questa come l’unica via per rendere sostenibile il disegno delle città smart. Occorre agire certamente in questa direzione ma al contempo muovere un sistema articolato di leve. In primo luogo è necessario capire in quale scala di priorità vengono collocati gli interventi per le smart city dai governi locali. Se in una città si preferisce costruire altre infrastrutture il problema non può essere definito in termini di assenza di disponibilità di risorse, ma di scelte allocative in situazioni di risorse scarse. Cioè in primo luogo occorre stabilire una differenza fondamentale tra preferenze e possibilità. Se l’idea di allocare risorse nel disegno di smart city viene considerata di minor valore rispetto alla costruzione di un palasport, significa semplicemente che quella città non vede come prioritario il proprio futuro nella società dell’informazione, ma altre funzioni più consolidate.
In secondo luogo occorre recuperare il concetto espresso in precedenza: la città non coincide con l’amministrazione comunale. Smart city significa investimenti in infrastrutture certamente di interesse generale per la città, ma non necessariamente pubbliche. Quando il settore pubblico non è in grado di investire risorse proprie, ma la città, nel suo sistema ampio di stakeholders, ritiene fondamentale attrezzarsi in questa direzione, per non perdere competitività, occorre che tutti gli attori locali si attivino per cooperare e investire (crowdfunding). Se una città di medie e grandi dimensioni non è in grado, mettendo in compartecipazione il sistema pubblico, gli imprenditori, il sistema finanziario ecc., di investire una cifra utile a far partire un percorso di smart city, significa che per la città questa non è una vera priorità. Se una città non è in grado di fare sistema per accedere a finanziamenti europei, nazionali o regionali per integrare questo tipo di investimento significa che non vede come prioritario questo tema.
In terzo luogo occorre ripensare i modelli di business. Smart city da un lato può essere anche opportunità di risparmio capace di ricompensare gli investimenti (es. ESCO): non a caso il risparmio energetico è uno dei pochi ambiti nel quale concretamente si osservano esperienze operative.
Dall’altro lato, smart city è anche un concetto nel quale le informazioni si trasformano in servizi ad alto valore aggiunto, con un potenziale mercato disponibile a pagare per acquisire quel valore. In fondo numerose app per smartphone sono servizi di interesse generale. Se le imprese assumono seriamente le linee guida sulla social innovation promosse dalla Commissione europea, le opportunità per rendere sostenibili le smart city crescono. In fondo si tratta di risolvere una miriade di piccoli problemi collettivi offrendo utilità tecnologiche concrete e personalizzate che i cittadini sono disponibile a pagare come servizi. Il settore pubblico per ragioni economiche, ma anche di missione istituzionale, non potrà mai rincorrere quella miriade di problemi né fornire utilità così mirate e differenziate. Si apre allora un mercato potenzialmente enorme, dove la domanda è già sensibile, dove l’attore pubblico può costruire infrastrutture abilitanti (reti, identità digitale, servizi base, open data) e dove l’offerta può costruire servizi privati di interesse generale, capaci di essere sostenibili autonomamente.
Se davvero una città intende muoversi nella direzione della smart city occorrerebbe una sorta di road map: un percorso graduale e preciso nel quale siano delineate le mete, ma anche i passi che occorre compiere per avviare il cammino. L’impressione è infatti che di fronte alla vastità delle opzioni aperte sia necessario stabilire in primo luogo quali sono i primi passi da compiere. Il rischio che appare più probabile è infatti quello che il sogno rimanga a livello di possibilità e non precipiti mai in artefatti concreti. La prima condizione necessaria è che esista un decisore pubblico locale consapevole, motivato e soprattutto autorevole e credibile. Se infatti è inevitabile che il disegno debba diventare proprietà della città è altrettanto vero che è all’attore pubblico che viene chiesto il ruolo di leadership. In secondo luogo è necessario declinare e condividere le strategie della città tra gli attori e stabilire quali priorità sia opportuno affrontare.
Ritengo sia tatticamente conveniente scegliere di partire dalle priorità di sviluppo economico locale. Applicare le logiche smart alle competenze distintive del territorio può consentire più facilmente di mobilitare gli interessi e le risorse della città perché risultano più immediatamente percepibili il beneficio economico per gli investitori e le opportunità imprenditoriali. Questa scelta infatti può consentire al territorio di migliorare ulteriormente i propri punti di forza, investendo in competitività, e garantendo così benefici a tutto il sistema economico locale. Al contempo, questa strada può creare una massa critica di consenso anche in coloro che nel territorio vedono specificamente una concreta opportunità di business digitale di nicchia, connesso alla vocazione locale. Questa scelta inoltre, grazie al consenso che genera, rende immediatamente concretizzabile la sperimentazione di azioni reali, senza le quali è impossibile avviare poi azioni imitative e pratiche diffusive. In questo modo si creano le condizioni per agire successivamente, sulla scorta di esperienze positive, in altri ambiti di policy, ad alto impatto rispetto ai bisogni territoriali e sociali.
In terzo luogo è decisiva la dimensione progettuale e organizzativa. Solamente con una solidità dal punto di vista della sostenibilità, della progettazione operativa condivisa e della chiarezza dei ruoli e delle responsabilità del sistema degli attori è possibile non limitare la strategia smart a una esperienza simbolica. Come in molte altre situazioni alla chiarezza e condivisione del disegno strategico, va affiancato un corposo sforzo di project management per evitare i fallimenti di delivery che hanno caratterizzato finora praticamente tutte le esperienze italiane di innovazione.

4. Smart city: una politica nazionale di gestione del cambiamento
Se esistesse un atlante dell’innovazione amministrativa italiana sarebbe un racconto circolare. Non una spirale vichiana con qualche barlume di speranza, ma proprio un circolo vizioso senza possibilità di uscita. Carichi di lavoro, incentivi di produttività, carte dei servizi, controllo di gestione, semplificazione, sportello unico, e-gov, piano delle performance… tutte iniziative che hanno visto sempre lo stesso percorso: stesura di una norma specifica che ne obbligasse l’introduzione, costruzione di una base attiva di consenso tramite annunci roboanti, costruzione di una nuova struttura dotata di task molto vaghi e di forti competenze giuridiche (Comitato per la carta dei servizi, comitato sulla valutazione, nucleo per la semplificazione, Aipa, Cnipa, Dit, Civit,…). Gli esiti sono sempre stati genericamente definiti deludenti in termini di risultati: non tanto sulla base di qualche processo strutturato di valutazione, ma sulla base della cronaca o di qualche statistica di compliance. Il feed back è consistito sempre in due alternative: rivedere compulsivamente la norma o attribuire alla fase di attuazione la causa del fallimento. Mai ci si è chiesto se a sbagliare fosse stato chi quella norma aveva voluto. Il nostro Paese è riluttante ad imparare dall’esperienza.
In realtà queste politiche di innovazione sono sempre fallite perché chi le ha progettate non le ha progettate adeguatamente: non ha tenuto conto della fattibilità, non ha valutato ex ante i problemi di attuazione, non ha predisposto dispositivi di supporto per affrontare i problemi prevedibili, non ha progettato meccanismi seri di valutazione e apprendimento. In sintesi le politiche di innovazione non hanno mai avuto un serio pensiero di change management che le accompagnasse. Non basta avere una buona idea per cambiare: bisogna anche metterla in pratica. E questo è tanto più complesso quanto più riguarda inevitabilmente milioni di interlocutori. Il cambiamento avviene solo se qualcuno lo sostiene e lo spinge perchè gli ostacoli, intenzionali o inerziali, sulla sua strada sono molteplici. Stupirsi delle difficoltà di attuazione di un provvedimento non è una buona reazione per chi progetta una politica pubblica: al contrario è un sintomo di cattiva progettazione e di molta poca consapevolezza della realtà.
Il caso delle smart city non si sottrarrà a un destino difficile se questa politica non sarà sostenuta in modo efficace.
Il Ministero dell’istruzione, università e della ricerca scientifica ha condotto un’opera meritoria. Attraverso un pacchetto di risorse importanti, ma non eccessive è riuscito a far coagulare intorno a progetti comuni imprese di diverse dimensioni, Università e centri di ricerca e a far dialogare tra loro sistemi istituzionali diversi e distanti. L’esigenza di condividere progetti comuni di dimensioni importanti per la realizzazione di prototipi industriali ha rappresentato l’occasione perché ciò concretamente avvenisse fuori dalle retoriche dei generici appelli a “fare sistema”. Molti possono protestare per le modalità di finanziamento che privilegiano le università a scapito dell’impresa, per la complessità dei processi amministrativi, per lo spazio residuale lasciato all’attore pubblico, ma, nella sostanza, questo percorso messo in campo, quando sarà completamente leggibile in termini di quadro generale, produrrà finalmente una bellissima mappa di veri e propri laboratori di innovazione.
Le più importanti aziende, università e centri di ricerca presenti nel nostro Paese saranno impegnati in questi anni a progettare soluzioni che dovranno trovare applicazioni non solamente nelle nostre città, ma ovviamente anche nei mercati di tutto il mondo. E’ una straordinaria opportunità per il Paese come sistema e anche per i singoli territori che potranno sviluppare le proprie vocazioni in chiave tecnologica. Questo è un ottimo primo passo per una politica di supporto alle smart city.
Occorre accompagnare fin da subito questa opportunità con una politica nazionale forte di sostegno. Questi laboratori devono trovare una interlocuzione locale seria nell’ambito di strategie di sviluppo territoriale, ma devono trovare anche un prezioso alleato nel Centro nazionale che può agire almeno quattro grandi leve di gestione dell’attuazione: il valore della conoscenza, il capitale umano, la forza delle relazioni, la risorsa del consenso.
a) Il valore della conoscenza: cosa accade nei singoli laboratori di innovazione non può essere patrimonio che rimane a esclusiva conoscenza locale (se non altro per coerenza con il tema). Ovviamente occorre preservare i segreti industriali e i brevetti eventuali, ma le soluzioni sperimentali, i processi decisionali e operativi, le strategie adottate, i percorsi di innovazione è necessario formalizzarli e condividerli in una sorta di unico sistema di knowledge management per le smart city. In questo senso l’osservatorio Anci-Cittalia finanziato dal Miur è una importante base di partenza purchè sappia interpretare un ruolo più proattivo rispetto alla logica tradizionale passiva che da sempre caratterizza gli osservatori italiani.
b) Il capitale umano: si dice ovunque che non esistono smart city senza smart people e non si può lasciare solamente al naturale sviluppo dell’auto apprendimento digitale questo percorso. Occorre che gli attori chiave delle città possano accedere a percorsi di apprendimento e coinvolgimento importanti se li si vuole vedere all’opera come alleati consapevoli in questa sfida. Certamente non si tratta di programmare centinaia di improbabili corsi di formazione, ma di avviare iniziative originali di riflessione e apprendimento diffuse sul futuro delle nostre città, concertate con le rappresentanze degli attori chiave. Se davvero si vogliono superare i gap di visione strategica questa strada è davvero inevitabile e il supporto a una progettazione operativa intelligente della road map può trovare un punto di forza nella disponibilità di alcune competenze specialistiche nazionali di alto profilo.
c) La forza delle relazioni: una risorsa fondamentale per i laboratori di innovazione è la gestione delle relazioni. Connessione e interazione sono i cardini di una smart city e ancora una volta occorre essere coerenti con politiche adeguate. Da questo punto di vista una politica nazionale potrebbe offrire una quantità di opportunità incredibili. Si pensi solo alla coincidenza di EXPO 2015 e alla vetrina che potrebbe rappresentare per le soluzioni smart elaborate. O alla possibilità di attivare relazioni internazionali per i territori o connessioni immediate con i programmi emergenti della commissione europea (es. Horizon 2020). O ancora alla rilevanza strategica che una presenza di rappresentanti governativi sul territorio può rappresentare per superare incagli di percorso o infine alla possibilità di rimuovere ostacoli a soluzioni smart che trovano nei vincoli normativi cause di impossibilità attuativa. Ma anche nella dimensione di rete orizzontale il centro può svolgere una funzione determinante di nodo, inteso come facilitatore dei rapporti tra sperimentatori e laboratori di innovazione (community).
d) La risorsa del consenso: il consenso è una variabile fondamentale di questi processi. L’entusiasmo degli attori dipende in grande misura dall’ombrello di consenso, visibilità e centralità comunicativa che viene messo in campo. Avere una copertura mediatica importante, far riconoscere come prioritarie le iniziative intraprese, sentire l’appoggio dell’opinione pubblica e il coinvolgimento pieno degli stakeholders sono fattori determinanti per il successo delle iniziative. Una politica governativa, sotto la responsabilità visibile di un Ministro, potrebbe giocare un ruolo fondamentale nei processi comunicativi, mostrando al Paese una parte importante d’Italia che vuole cambiare e correre nella competizione globale. Per quanto gli uffici stampa o il marketing delle aziende possano svolgere un ruolo fondamentale, è chiaro che ben diverso è l’impatto di una strategia di comunicazione integrata promossa dal governo e condivisa da un sistema così importante e articolato di attori.
Sappiamo bene che tutti questi aspetti potrebbero essere non necessari in condizioni ideali dove imprese, università e territori hanno una lucida coerenza tra pianificazione strategica e processi di innovazione, dove esistono condizioni naturali di collaborazione pragmatica, dove le risorse per investire sono disponibili perché gli attori sono maturi e condividono le priorità. Sappiamo anche però che non sempre questo potrà accadere. I limiti di percorso e le resistenze sono abbastanza evidenti nelle premesse, così come è abbastanza semplice prevedere possibili road map. Occorre che questa consapevolezza sia tradotta in progetto e in azioni concrete di supporto (non necessariamente in strutture) per non ritrovarci tra tre anni ad allargare nuovamente le braccia e a dire che purtroppo a una buona idea è mancata “solo” l’attuazione. Per una volta sarebbe utile imparare dall’esperienza e vincere questa sfida: le tante risorse di fiducia ancora presenti nel nostro Paese non vanno di nuovo sprecate.

 

  (1) A questo proposito si vedano tra i più recenti: Cittalia “Il percorso verso la città intelligente” (E-book) e gli atti del convegno Between, “Italia + Smart”, Capri 2012.

  (2) H. Davenport, D.J. Patil “Mettete al lavoro gli strumenti analitici avanzati” in Harvard Business Review Italia, Ott. 2012 pag. 33-39.