Tra crisi del mattone e povertà abitativa, si può “recuperare”?

Crisi economica, povertà abitativa, i numeri sono ormai noti e ci dicono che il 7,3% degli Italiani si trova in una condizione di deprivazione abitativa.
Ma gli effetti della crisi non si manifestano solo nell’incapacità di sostenere le spese abitative: quando si passa da una fase di crescita ad una di recessione si effettuano delle azioni di ridimensionamento che rischiano di lasciare interi edifici, se non intere aree urbane, in stato di abbandono, con pesanti ripercussioni in termini di degrado urbano e equilibrio sociale. Tanto più quando la fase di crescita ha avuto la durata di decenni.

L’Italia infatti, a partire dal boom economico del dopoguerra, ha vissuto, pur attraversando ciclicamente seri momenti di crisi, un periodo di costante espansione che ha coinvolto tutti gli attori sociali. A cominciare dallo Stato che, specialmente tra gli anni ’60 e ’70, ha messo insieme un patrimonio immobiliare vastissimo dove collocare tutto quanto gravitava intorno alla macchina burocratica italiana. Un patrimonio di edifici che oggi, data la necessità di contenimento della spesa pubblica e il processo di ridimensionamento dell’organico della pubblica amministrazione, vengono sempre più spesso chiusi o abbandonati poichè, a causa degli alti costi di ristrutturazione, sono difficilmente vendibili nel mercato immobiliare privato o convertibili ad altro uso.
Un problema che si presenta anche per le attività non statali. La chiusura di imprese e attività commerciali sta portando alla dismissione di intere aree industriali che devono essere riqualificate e re-inglobate nello spazio urbano onde evitare che diventino “zone ghetto”. Solo nel 2012 si contavano 15 mila aree industriali dismesse da riconvertire.
Infine, cosa fare del patrimonio immobiliare – anche di nuova costruzione – prodotto del boom edilizio che ha caratterizzato il primo decennio del nuovo secolo? Nel 2012, secondo Nomisma, erano 694 mila gli alloggi vuoti e 328 mila quelli in costruzione.
Lo scenario che abbiamo di fronte è il seguente: un mercato immobiliare saturo, un numero crescente di cittadini che non possono permettersi una casa e sempre più edifici – sia pubblici che privati – vuoti e inutilizzati. Si può superare il problema?
Guardiamo cos’hanno fatto gli altri paesi. La Spagna, travolta dalla Burbuja del ladrillo, ha intrapreso una soluzione estrema: il Sareb, la banca pubblica che ha ereditato il patrimonio immobiliare dalle banche per salvare gli istituti di credito, ha stanziato 103 milioni di euro per la demolizione di un pezzo del suo tesoretto edilizio allo scopo di risparmiare sulle spese di gestione e rilanciare l’economia. In Francia, invece, il ministro Cécile Duflot ha proposto di convertire gli edifici statali vuoti – ma anche della Chiesa e delle società private – in strutture da mettere a disposizione dei senza tetto.
Se queste soluzioni risultano poco applicabili o condivisibili, crescono invece le iniziative per promuovere il recupero di edifici/aree abbandonate e la loro conversione a spazi comuni o di edilizia sociale. A volte sono gli stessi cittadini che, grazie all’uso delle App e delle nuove tecnologie creano dei network per rimettere in circolo questi spazi. Ne è un esempio [im]possible living, sito dedicato alla mappatura e alla riattivazione di edifici abbandonati. La missione è di ridare vita agli stabili attraverso un metodo innovativo: creare una community internazionale che, attraverso un processo di crowdsourcing, sia in grado di generare nuove soluzioni per risolvere il problema del degrado.
Infine, anche gli enti locali possono fare qualcosa. Il Comune di Bologna, per esempio, ha pubblicato una mappa degli edifici inutilizzati di proprietà comunale. Su alcuni di essi, per i quali il Comune non riesce ad individuare destinazioni possibili, chiunque può presentare progetti e, nel caso di idee compatibili con le normative e il contesto, ottenere l’uso dello spazio.