La città sradicata – Geografie dell’abitare contemporaneo, i migranti mappano Milano

“I territori della contemporaneità sono solcati sempre più profondamente dalle traiettorie delle popolazioni erranti”. Si apre una frattura nella città che non è più luogo esclusivo di un abitare fondato sui processi di identificazione e di appartenenza ma territorio dell’imprevisto dove “soggetti nomadi”, prima pendolari e city users, poi migranti, popolano gli spazi della città senza necessariamente stabilirsi e riconoscersi in essa. Nusicaa Pezzoni, architetto e urbanista, nel suo libro “La città sradicata – Geografie dell’abitare contemporaneo, i migranti mappano Milano” (edizioni O Barra O) traccia il nuovo modo di vivere gli spazi urbani, caratterizzati da un “abitare sradicato” in cui prevale la condizione dell’instabilità. Cento migranti hanno mappato la città di Milano facendo emergere quei luoghi invisibili alla rappresentazione cartografica tradizionale. Alla base di questo esperimento vi è il riferimento storico all’urbanista americano Kevin Lynch e al suo lavoro l’ “Immagine della città” in cui si chiede: “Come fa un estraneo a costruire l’immagine per una città che gli è nuova?”.

La trasposizione del metodo lynchiano
Il metodo lynchiano, nell’esperimento condotto a Milano, viene modificato e riviste le categorie da lui introdotte (riferimenti, districts, paths, nodi e confini) per interpretare la percezione della città da parte dei migranti.
Per i migranti giunti nei luoghi di “primo approdo” (mense, centri aiuto, associazioni, punti di ritrovo) gli elementi oggettivanti o i cosiddetti riferimenti della città (landmarks per Lynch) sono gli oggetti urbani più immediatamente riconoscibili, ovvero i primi luoghi incontrati. Mentre i districts, che per Lynch sono le parti urbane con una propria storia, per il migrante sono semplicemente i luoghi dell’abitare quotidiano: la città è muta, gli spazi urbani non parlano del loro vissuto. Proseguendo nella trasposizione del metodo lynchiano, l’autrice fa riferimento ai paths, che per lo studioso americano non sono altro che i tracciati, “i canali lungo i quali l’osservatore muove abitualmente, occasionalmente o potenzialmente”. Per il migrante invece la città non solo è muta ma non ha neanche corpo, essa consiste in semplici recapiti utili per il suo “abitare transitorio”. I paths sono per lui i percorsi, gli spostamenti quotidiani nella città. I nodi sono invece i luoghi dell’incontro, della socialità. Sono i punti di aggregazione, gli spazi pubblici in cui si dispiegano le relazioni sociali. Mentre i confini, trasposizione degli edges lynchiani, rappresentano gli “elementi che costituiscono interruzioni lineari di continuità: rive, linee ferroviarie, mura che disegnano barriere, o che descrivono il fronte lungo il quale si dispiega la distinzione o la sutura tra parti diverse della città”. I confini percepiti dai migranti però non corrispondono a delimitazioni fisiche, ma piuttosto a quei luoghi della città che gli rimangono oscuri o che crede inaccessibili. Parti della città non ancora esplorate.

Se il metodo lynchiano e la “teoria esperienziale urbana” puntano a far emergere i caratteri morfologici della città attraverso la costruzione di mappe mentali, nell’esperimento condotto a Milano, secondo Pezzoni, il metodo dell’urbanista americano viene rivisto per costruire invece l’immagine della città come viene realmente percepita dai migranti. E’ una mappa delle emozioni, dell’esperienza dell'”abitare sradicato” quella disegnata dai migranti che conduce verso la comprensione di nuove forme di relazione tra città e abitanti fondamentali per pianificare città e quartieri sempre più attraversati da una “popolazione in movimento”.